È qui.
Come un essere dotato di gravida luce,
sappiamo che niente
potrà creare
quello strappo necessario alla sua doglia:
siamo il suo flusso verginale,
l’originario tremore
dal quale anche l’occulta materia,
ormai compiuta nel nostro inclusivo evento,
tenta di evadere,
ancor più mite,
pur di levare un suono,
una scheggia di presenza non arrestabile,
ai secoli dei secoli
per l’esattezza dei millenni.
È l’ansia di crescere un risveglio,
il palpito che diviene attesa
dinanzi al corpo,
dunque alla nascita:
non l’accenno dei sensi, tutti,
né i primi fremiti della carne
ci consolidano a tanta pregressa,
sussultoria appartenenza.
I nomi.
Sulle labbra nostre
sono loro
ad allontanare adesso i mari, i mondi,
ora le distanze, i confini precisi,
che vogliono disunirci, distinguerci,
pur di allinearci al finito,
a temporaneità che mai ci appartennero.
E, così,
tutto permane difeso e innocente
in una distanza
che vuole corrispondere ai mari, ai mondi,
e che del confine e del preciso
illimitato primordio diventa.
Sei qui.
Di quale imperituro sentimento.
E quanta iniziazione
dal suo moto fenomenico.
Noi.
Come non potremmo
consapevolizzarci d’immenso
in ciò che ci addimora
come primo e ultimo infinito,
vivente nel vivente,
e istante dell’istante?
Niente potrà creare
quello strappo necessario alla sua doglia:
soltanto tu,
eternato a essere di gravida luce,
feconderai il di te stesso io
in noi,
che siamo il suo flusso verginale,
l’originario tremore arcano,
nel quale vorrai implodere,
per concepirti ancora,
ai secoli dei secoli,
per l’esattezza dei millenni,
fino a compierci, perfetti,
nel tuo inclusivo e non arrestabile evento,
come sostanza della tua sostanza,
presenti e innati
nella tua immutabile presenza.
(08/05/2025)