Di ali, battiti e castighi.
Troneggiano piovaschi e assideramenti fluviali nelle contaminate impollinazioni ottobrine.
Delirano gli squali, le balene portano a spasso per l’oceano simpatico i loro sette, otto dementi delitti.
Perduta la via del ritorno, le più feroci sanguisughe piombano, senza alcuna prudenza, tra poligonali stormi di colombe, calibrando incenerite traiettorie di caccia sul ventilabro delle fiamme sideree a cascate artiche.
Finché la mareggiata del nord non si stancherà di raccogliere velenose castagne tra gli uniti fondali delle piantagioni rare, non cesseranno di migrare gli anelli dei pianeti dalle ellissi uguali e solitarie, aiutati dal cielo splendente nei quattro volti del carro.
Conosciamo. Abbiamo tra labbra e becco, tra orbita e armonia, la concezione vivente della prodezza epifenomenica che darà vergine voce al ministero dei drammi di uno spasmodico domani. Noi la possediamo.
Per intanto, restano le ombre dal tenebroso vento a tracimare tra abbagli di lingue con sogni tirannici. E le indifferenze. Incontrollabili. Come i gomitoli di sabbia.
Di ali, battiti e castighi.
L’algoritmo in intertempi, che genera sangue fin dentro i capillari della totale vergogna, ha un nome che si riesce a calcolare guardandolo in viso, senza l’ausilio degli occhi, per l’imbarazzo sensazionale delle lacrime.
C’è chi crede nella virtù dei vizi. E viceversa.
Farà meglio, il silenzio, a saltellare, come l’alba che tarda, con le nostre gambe, continuando a credere, in silenzio, nell’enigma di colei che adagerà, magnifica, il suo terzo seno sulla nostra bocca.
Raggiorna.
L’amore insuffla i suoi germoglianti frutti sulle boreali altezze delle celesti verità. Le più lattanti.
(23/10/2025)


