Abbiamo concepito,
abbiamo sentito i dolori
quasi dovessimo partorire:
era solo vento;
non abbiamo portato salvezza alla terra
e non sono nati abitanti nel mondo.
Ma di nuovo vivranno i tuoi morti.
I miei cadaveri risorgeranno!
(Is 26, 18-19)
Non un pianto si leva dagli aridi occhi, né lo sguardo cerca la sua via di fuga, d’inciampo. Anche le pietre sembrano pregare in questo settimo giorno di giugno, quando un tramonto quasi estraneo, con la sua ciclica memoria, devitalizza l’animo di chi ha perduto tutto e che nel più muto dolore dall’esistere si astrae. Una bestia da soma resta tramortita tra due suoli e lì stramazza, come un’ora sfiorita d’azzurro, come un’onda che collassa nei riflessi assenti di un cielo verticale. Dal suo agonizzante fiato hai visto emergere il peso, l’angoscia, la rabbia, i quali dimorano, adesso, nella disperazione che ancora per un altro giorno è linfa, radice e sostanza, di chissà quali altri domani. Se giacciono i tuoi figli senza vita, esangui, per le carneficine, i più vili assalti, sulla terra del sacrificio, tutto, tutto va divenendo polvere mescolata dalla cenere, con il tuo nome che vorrebbe correrti avanti per trascinarti via, in quel tempo dove solo per te scorrevano felicità e territori, come cascate di latte e rivoli di miele. Ma tu sei fedele soltanto al tuo gravido lutto. E, come Rachele, non vuoi, non vuoi essere da alcuno consolata. È vero. La morte può essere un cominciamento; ovvero: un ricominciamento. Ma ciò che fa sussultare il tuo grembo, tu, oggi, non puoi comprenderlo appieno. Non un pianto si leva dagli aridi occhi, né lo sguardo cerca la sua via di fuga, d’inciampo. In questo settimo giorno di giugno anche le pietre sembrano pregare. È soltanto vento. Un vento che, senza nessuna doglia, vai partorendo e che vagisce nel tuo nome perché vorrebbe correrti avanti per trascinarti via, lontano dai disabitanti del mondo, Palestina. Ma i tuoi figli ritorneranno e dal tuo seno scorrerà luce. Sì, la terra darà alla luce anche le ombre.
(07/06/2025)