“Se il Signore non costruisce la casa,
invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città,
invano veglia il custode”.
(Sal 127, 1)
Nei cedevoli palazzi di armato cemento e avorio greggio, ideati per cristallizzare la letargia elefantiaca della canapa e della seta, si alternano strette di ipnotici sorrisi e morsi di lingue avariate, tra dodici laghi artificiali e stupefacenti fiumi di bambù: intingono latte programmato a distanza come da fusti di piaghe piovuti a grappolo dall’ingiù, mentre tace il suolo, tace, terrorizzato – all’intorno – per il seno pentagonale delle cadaveriche viole, calibrato ad aria con l’impoverita pietra, la lambente. Su tutto ciò soggiorna, sanguinante, il risveglio della luna. Irrimediabile. Come il colante sudore delle tenebre.
Giugno. Ci saranno vittorie da dimostrare soltanto al silenzio e al suo epilogo.
Fuori le mura della città, sulle trasparenti orme delle cento pecorelle malmenate dalle pastore ebbre, ma non di vino, cominciano ad ardere le fiamme, le sette fiamme della stella mattutina, la quale spalanca la sua bocca immacolata, la verace, per cantare in ogni atmosfera il nome del suo nome. E un fiore si bagna nel presagio del suo avverato presagio, dando natività e ricominciamento a ciò che mai termina: la parola, nella parola della parola. La cosiddetta corredentrice della vita, per la vita nella vita, che di luce gravida, ingravida la luce. Gravida.
(04/06/2025)


