(Is 6,1-2a.3-88; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11)
Compresi l’infermità della mia condotta umana e guadagnai la fondamentale consapevolezza che fino ad allora in me non aveva trovato alloggio. Avanti a me si presentarono il diritto e la giustizia, la grazia e la verità e innanzi a tanto albore non potei che sentirmi indegno. Indegno perché i miei peccati non mi avevano mai concesso una elevazione del pensiero verso ciò che la mia mente nemmeno intendeva. Indegno perché i miei occhi non ebbero a bere, no, bensì quella stessa mente fu ad essere illuminata dalla visione del sommo bene. La gloria che ebbi a contemplare mi devastò l’anima e il mio cuore cessò perfino di battere; una morte immersa nella mai cessata vita. Ero preso da tanto splendore che una parte del mio corpo, gemendo, si riconobbe non più oggetto ma il soggetto di ciò che andava riflettendo la parola, seppure greve, dentro di me. Impuro. Non avrei potuto resistere a tanta espressione di vita e di amore, di quell’innesto così violento e santo che stava lentamente rasando il mio capo tatuato da ogni debolezza, da troppa imperfezione dell’essere creatura e dunque un uomo. Eppure mi si usò pietà, comprensione. Io ero il destinatario di tanto bene, non il colpevolizzato per il molto odio. Mi rimisi, nella mia condizione genuflessa di muto, di cieco, di sordo, alla bontà di chi andava ben oltre la bontà e colà, andando un buio sommesso ed ormai stanco, mi ritrovai guarito nel corpo, nell’anima, e come un battezzato nel fuoco e nell’acqua mi ricoprii di terra prima per sentirmi concepito nell’aria, mondo e rinnovato, con lo spirito imbevuto di me. Non fui io ad andare, ma andai. Non fui mandato, ma la mia parola non era la mia. Andai perché fui la parola che divenne.
(07/02/2022)