Sforma lieve il nottambulo labiale della bestia il tirocinio del baccano mai estroverso che la rattiene al muro incestuoso di un’ombra fucilata chissà quante volte dal mimico oltre-andare del fatidico usignolo accampato di là, nei cieli della ressa. E tarda intanto, tarda l’ora nel suo assieme limbico, eterogeno e fantastico: sinfonia che smagrisce l’attesa e che rinnova la ventosità dei più assetati monti, ove passo non cede e voce mai muore per dare alla bellezza un porto, un mare sì vasto che consegni alla vita un nome ed al cominciamento del nuovo una parola, e ancora, come fosse un primo concentramento del nostro bacio interminato. Perché possedersi a nebule di rugiada nelle fenditure aeree dei vapori terrestri quando la pietra di plasma scuote i varchi acquosi prima di profondare nelle azzurrità eclatanti, innocenti? Il tuono fa partorire le cerve e spoglia le foreste. Avanti ai capolavori di una natura adesso innominabile e mai doma, come una faretra di argilla e di bronzo la sua larga bocca spalanca la perdurante bestia. E ingoia il resto del suo sballo, pegno di una sua lunga danza, nettando il mondo. Il cinguettio delle armoniose dissonanze consolida ciò che i trasmittenti bagliori astrali colloquiano al finito. Sulle labbra di chi si ama è assisa la tempesta. Ed il pugno della luce che avanza nel diluvio dei cuori sorregge la nostra vigna tra le capanne di Kedar, tra memoria e spazio, sospesa in un attuante albore d’innamoramento del più avverato cantico di primavera.
(17/03/2023)