Il mio primo ed ultimo bacio

Tu che dimori lì, ove nessun passo può calpestare l’altro e dove il merlo canta prima dell’usignolo per l’onestà che in lui ha deposto lo schiaffo della mia ora quando a metà della notte degli uomini ho stabilito per te la mia porzione dell’alba, il resoconto dei miei giardini: scendi. Sì, scendi dal grembo taciturno della mia montagna indossando i calzari più duri poiché dovrai andare nelle valli scoscese e di macerie pregne, site tra i colli disabitati, per parlare alle vipere della campagna abbandonata e ai topi provenienti dalle fogne dei limitrofi paesi, alle cicogne dal raso pelo e alle rondini migranti nello stagno. Urla senz’alzare la voce, indica il posto senz’alzare la mano. Siano, però, le dita della bocca a rivelare il singhiozzo della vita e inciditi sul viso il pianto delle madri.

Ecco. L’agguato è libero,

è uscito dalla sua prigione.

Nessuno gli indica la via

eppure essa è nel suo fiato,

nessuno gli dà conforto, segnale, istruzione,

ma tutto ciò è sottomesso al volere suo,

nei cardini accesi e bollenti della sua lingua,

presso l’anfratto della sua gola,

a strapiombo del timbro sferico di una immobile voce,

di una pazienza sfrenata.

Uscite,

uscite pure dai crocicchi delle vostre piazze nascoste,

assassini, pervertiti guaritori di anime, ladri,

e ammassate, ammassate pure il grano nelle vostre risaie.

Ingrassatevi senza badare ai tempi,

mangiate anche ciò che i porci più non possono mangiare.

Io vi dico che sul fico non abbonderà la luce del sole

poiché abbatterò la nutrita stagione delle ficaie

quando il mandorlo volterà i suoi rosei fiori

verso i vulcani della seta,

sopra i raddoppiati fiumi di corallo,

appesantendo la necessità di sguarnire i vostri denti

aldilà del già vinto grugnito

proveniente dalle miserie dei vostri cuori

sepolti dalle gioie troncate, spente, rubate,

di tutti i miei giorni, di tutti i miei anni, di tutti i miei istanti,

sezionati per la mietitura ormai trascorsa

e non ancora seminata.

Lì e non lì,

dove il merlo canta prima dell’usignolo

per l’onestà che in lui ha deposto lo schiaffo della mia ora

come primizia mai raccolta.

Lì e non lì,

dove i passi della mia voce non intralciano l’altrui passo

e ove l’altrui voce, scesa dal grembo taciturno dell’amore,

mai, giammai troverà inciampo tra i miei passi.

In questo e in quel tempo,

quando nella metà della notte degli uomini avrò stabilito il resoconto dei miei giardini consolidato dall’ultima porzione devastante di un tramonto germinato dall’alba. Occhi, i vostri occhi sclerotici suderanno siero e fiele, carbone ed amianto, e chiunque vi guarderà si batterà il petto per me, per me. Così, come un sorriso vangato, sfinito, che non avrà piacere né dispiacere per essere nel non essere, per morire senza mai nascere, sarete un aborto senz’alcun nome, un nome senza patria che mai e mai conoscerà il mio primo ed ultimo bacio.

(01/03/2022)